Tannenfall - La storia di un uomo e di un cervo

Tannenfall - La storia di un uomo e di un cervo

von: Bernhard Hofer

emons: GIALLI TEDESCHI, 2020

ISBN: 9783960416418 , 272 Seiten

Format: ePUB

Kopierschutz: frei

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Preis: 9,95 EUR

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Tannenfall - La storia di un uomo e di un cervo


 

IL RITORNO

Sua moglie stava morendo. Non sapeva quanti giorni le rimanevano. Non voleva pensarci. Quando fosse sprofondata nella morte, sarebbe scomparso anche lui, annegando nei suoi occhi bagnati come se non fosse mai esistito.

Fuori le streghe delle nevi urlavano. Il riscaldamento era spento. La misera pensione non bastava più. Le prese la mano rugosa, era calda. L’importante era quello.

Tirò la coperta di lana sulle spalle della malata. Senza alzare lo sguardo, raddrizzò il quadro appeso alla parete dietro al letto. Raffigurava un cervo inseguito da un branco di lupi con la bava alla bocca. La cornice era dorata. In alcuni punti l’imprimitura bianca affiorava in superficie.

Un cane abbaiò.

Lei sollevò di scatto la schiena. “Shhh. Shhh. Va tutto bene,” le disse, spingendola dolcemente sul cuscino umido. Si assicurava che niente la mettesse in agitazione o la disturbasse. Niente. In quelle ore si sentiva di nuovo come da bambino, impotente e pieno di rabbia.

Il cane abbaiò ancora.

“Shhh. Shhh.”

Infilò la sciarpa nella camicia e si chiuse sul mento il bavero della giacca da caccia. Stupida bestia, pensò, cercandolo nel bianco che risuonava di ululati. Cosa lo aveva spaventato tanto? Era stato lui? Il latrato si trasformò in un guaito e dopo qualche secondo si perse nel silenzio.

Si tolse il guanto a manopola e posò l’indice sul grilletto freddo del fucile sovrapposto. Non poteva più salvarlo. Era stato bene con lui. Ora non c’era più. Probabilmente era precipitato nel dirupo.

Trattenne il respiro.

Aveva aspettato quella caccia per tutta la vita. Un attimo. Uno sparo. Un colpo mortale. Restò appostato dietro il muro di neve ghiacciata. L’ombra, i possenti palchi, il vapore caldo dai polmoni forti: era lui. Anche lui si era preparato per la grande, lunga lotta. Uomo contro animale, caccia contro fuga, uno contro uno.

Non udì lo sparo.

Lei strinse nella mano le sue dita stanche. Lui sentì il battito del suo cuore. “È successo qualcosa? È tornato?” gli domandò turbata, allungando la testa. Lui odorava di incenso, di olio amaro.

“Va tutto bene. Sono qui con te. Ci sarò sempre. Sempre. Shhh. Shhh.”

IL CANTO MUTO

La melodia del suonatore di corno gli entrò dentro come un coltello arroventato. Osservò gli alti abeti innevati che circondavano il cimitero. Di fronte a loro il musicista appariva debole e sperduto, ma le sue note erano più affilate di qualsiasi lama. Distolse lo sguardo, si fissò le mani giunte. La camicia di flanella a quadri spuntava dalle maniche dell’abito tradizionale. Una macchia di latte secco aveva sbiadito i colori.

La notizia della morte di Konrad era stata inattesa. Aveva appena finito di pulire i fornelli. Il latte era traboccato dal bricco rosso mentre stendeva il bucato nel locale caldaia.

La moglie si era abituata all’odore di bruciato. La mattina le piaceva aggiungere un goccio di latte nel tè. Un capriccio infantile che adesso, prossima alla fine, sapeva di casa.

“Chi era?” aveva domandato con voce tremante. Vedendo sulla soglia il marito con gli occhi strozzati dal pianto aveva capito subito che qualcosa non andava. Lui si era avvicinato camminando sul vecchio pavimento di legno e si era seduto sul letto. Lei lo fissava, un guizzo di curiosità agli angoli della bocca, la stessa di allora, del giorno in cui l’aveva conosciuta, al ballo, alla festa del paese, prima della guerra.

“Konrad è morto.”

Il braccio magro era scivolato lentamente lungo il fianco. “Konrad?” Le lacrime le serravano la gola. Lui era rimasto in silenzio. “Come?”

“A caccia. Un incidente.”

“Un incidente?”

Aveva annuito. Quante volte il Signore lo aveva protetto stendendo la sua mano su di lui? Konrad avrebbe compiuto cento anni. Un buon risultato. Anche lui aveva beneficiato della fortuna dell’amico. Come quel giorno con la motosega, quando si era quasi tranciato la gamba sotto il ginocchio e poi aveva guidato fino all’ospedale. La moglie non aveva la patente, i figli erano troppo piccoli, e il padre sapeva solo recriminare. Soffrire era un lusso che non poteva permettersi. Doveva pensare agli altri, non a se stesso. Aveva stretto i denti e alla fine era svenuto davanti ai medici.

O quando era caduto dall’altana, atterrando sui cuscini di mirtilli. L’ultimo piolo della scala era marcio. Gli era andata bene. Konrad lo prendeva sempre in giro. Ci aveva fatto il callo. In genere rideva anche lui, non gli veniva in mente niente di meglio. E anche quella volta, malgrado la colonna vertebrale urlasse dal dolore, si era sforzato almeno di sorridere, perché invidiava Konrad, che aveva ottenuto tutto ciò che sognava. Lui non ne aveva mai avuto la possibilità. La casa, il padre, la madre, i figli. Doveva occuparsi di loro. Un giorno tutto il suo impegno sarebbe stato riconosciuto. Ma in quel momento aveva riso insieme a Konrad, immaginando il cielo che gli crollava addosso mentre tentava di rialzarsi, come uno scarafaggio ribaltato sulla schiena.

“Sul ghiaccio? È caduto?” aveva domandato sua moglie.

“È rimasto impigliato con il fucile. Un incidente. La neve sarà tutta rossa, la testa…”

Lei si era voltata dall’altra parte.

Konrad era morto. Lo conosceva dalla nascita. Non si erano mai persi di vista. Era come se Konrad avesse sempre badato a lui. Alla stregua di un fratello maggiore, che deve picchiare il minore per essere sicuro di esistere. Il suo ruolo era stato quello. Era il patetico perdente al fianco di Konrad. Ora che lui era morto, non era più un fallito. Ora non era più nemmeno quello.

“Vuoi dormire?” le aveva chiesto.

“Vai al funerale?”

Non aveva risposto ed era andato a controllare il latte. Lo aveva assalito una paura mai provata prima. E se fossero morti tutti? Se il suo cuore fosse rimasto l’ultimo a battere?

Aveva trascorso in silenzio il tempo fino al funerale. Si era alzato alle cinque come al solito, aveva pulito la casa vuota, accudito la moglie, fatto il bucato, letto il giornale. Un fronte freddo avrebbe portato altra neve. Aveva guardato le montagne coperte di boschi dalla finestra della cucina. Altra neve. Prima di dare l’estremo saluto a Konrad doveva spalare la strada. Altrimenti le macchine non sarebbero riuscite ad arrivare lassù.

Aveva indossato il completo con la fascia al braccio. Non l’aveva tolta dall’ultimo funerale. Detestava quel vestito. La morte spazzava via i vecchi, e i giovani li scacciava la vita. Lei avrebbe voluto dire ancora qualcosa, ma era troppo debole. Lui aveva annuito, aveva capito.

La musica giunse alla fine. Se l’era cavata bene. Il parroco guardò il suonatore di corno. Chi non si lascia toccare dalla verità non rischia nemmeno di crollare sotto il suo peso.

Stava gettando la seconda palata di terra sulla bara di Konrad, quando una voce alle sue spalle disse: “Le mie condoglianze.” Non conosceva quell’uomo. Non conosceva nemmeno gli altri due. Dovevano essere del paese vicino. Probabilmente il parroco gli aveva chiesto di assistere alla cerimonia.

Guardò il suo paese. Era deserto. Non poteva più morire nessuno. Sarebbe tornato al cimitero solo una volta. Alla morte della moglie. E quando sarebbe arrivato il suo turno, non ci sarebbe stato nessuno, tranne quei tre uomini che non lo conoscevano e che non conosceva.

A un cenno convenuto, il suonatore di corno attaccò una nuova melodia. Gli ultimi uccelli abbandonarono gli alberi spogli oltre gli abeti. Dentro di lui la tristezza diventò di pietra. Non c’era più nessuno con cui poteva parlare dei suoi svantaggi. Restava il dolce profumo della morte, la pietra nel suo cuore e l’odore di latte bruciato, che traboccava di nuovo e alla fine sfumava come i suoi figli.

IL FIENILE DI SANGUE

Era colpa sua? I rami nudi si protendevano verso di lui quando lasciò il cimitero e il bianco dell’inverno indietreggiò, simile a un sipario che volesse celare con cura i colori del mondo. Come era potuto accadere? Un incidente? Eppure Konrad era esperto.

Lanciò un’occhiata al faggio solitario, stanca sentinella di guardia sulla stretta strada davanti al cimitero. Giocavano lì, anche se non era ancora suonato l’intervallo. Si erano arrampicati con frasi baldanzose sul tronco e avevano raggiunto la cima. Sbagliato, Konrad l’aveva raggiunta. Lui no. Lui aveva perso l’equilibrio e si era rotto un braccio. Non aveva visto arrivare il piede di Konrad.

Si fermò e sfiorò la corteccia ruvida. C’era rimasto attaccato qualcosa di allora? Un filo del suo maglione di lana rossa? Una goccia di sangue? Un lembo di pelle? Che assurdità. Gli alberi non ricordavano. Gli alberi erano. I loro sentimenti e le loro sensazioni svanivano con il vento, non lasciavano cicatrici conficcate nell’anima.

L’incidente era successo al Muro degli orsi, una sporgenza rocciosa appena sotto la vetta della malga. Da lì si vedeva tutta la valle. Aveva aiutato Konrad a costruire l’altana. Aveva fatto un buon lavoro? Ebbe un fosco presentimento.

Guardò la rupe, un’ombra pallida abbarbicata tra il campanile, la scuola elementare e gli alti boschi. Se partiva subito, sarebbe tornato prima del crepuscolo. La moglie non se ne sarebbe accorta. Da tanto ormai aveva smarrito la nozione del tempo. Altrimenti le avrebbe detto che si era fermato a parlare con il parroco. Che avevano ricordato Konrad e le sue generose donazioni alla chiesa. Detestava mentirle, ma la curiosità era più forte.

E se lo aspettava sveglia? Si sarebbe preoccupata. Poteva prendere la macchina. Chi lo avrebbe visto? Non c’era più nessuno. E se lo vedevano, amen. Avrebbero scoperto le...